Questo testo è la trascrizione parziale dell’intervista a Yaya condotta durante l’incontro del giorno 20 giugno 2020. L’intervista è stata realizzata a seguito della visita di Yaya a due musei del Sistema Museale di Ateneo di Pisa, coinvolti nel progetto “So Distant. Incredibly Close”: ovvero il Museo degli Strumenti per il Calcolo e il Museo di Storia Naturale.
Oltre a Yaya, hanno partecipato all’intervista: Alice Milani (fumettista), Adriana De Cesare e Marzia Cerrai (Fondazione Sistema Toscana).
L’incontro è stato condotto e facilitato da Paola Bolelli (Associazione no profit ORISS).
Alcune parti dell’intervista potrebbero essere state rimosse dalla redattrice nel rispetto della privacy delle persone coinvolte.
Paola: Yaya, hai visto solo due musei. Ti ricordi qualcosa?
Yaya: Certo che mi ricordo. Il museo del calcolo era bellissimo. Quando arrivi lì capisci che gente prima di noi ha lavorato su cose oggi inconcepibili. Si vede che prima il mondo era più complesso di come sembra oggi.
Anche quello degli animali (ndr.: il Museo di Storia Naturale), mi è piaciuto molto. L’orso bianco mi ha colpito. Ho pubblicato la foto su Instagram.
P.: Ritornando al museo del calcolo. Cosa ti ha colpito delle cose che erano lì?
Y.: Quando mi hanno spiegato cosa era la macchina dei militari (ndr.: Enigma). Queste cose sono interessanti perché c’è qualcuno dietro che ci ha pensato a come realizzare queste macchine.
P.: E invece sulla tecnologia più moderna, la conoscevi già?
Y.: I computer alcuni li conoscevo. Ma la storia che c’era dietro, tutti i passaggi no.
P.: La prima cosa tecnologica che hai visto in vita tua quale è?
Y.: Il primo telefono Nokia che mi ha regalato mio zio nel 2005. Prima c’erano anche quelli fissi in Burkina Faso. Non erano nelle case ma solo nelle strade pubbliche. C’era un predicatore musulmano nel mio villaggio che ne aveva uno e tutti andavano da lui per chiamare all’estero.
P.: Ma poi da questi fissi nelle strade siete passati direttamente ai cellulari?
Y.: Allora dentro casa, nella città, qualcuno aveva il fisso. Ma dove stavo io, in campagna, no. Quando è arrivata la Cina, invece, sono iniziati ad arrivare i cellulari.
P.: Ma in Burkina Faso (come in Mali) si usavano i tamburi per comunicare da villaggio a villaggio?
Y.: Sì, però i tamburi sono molto diversi. Sono usati in maniera seria: per comunicare se è morto qualcuno. Sono dei codici. Noi non possiamo toccarli. Ci sono delle persone incaricate di suonarli. Solo loro. Una volta che ne avevo toccato uno ho dovuto pagare con un pollo come risarcimento!
P.: In Mali e in Senegal sono usati nella musica. I tamburi parlano.
Y.: È un linguaggio. Ora non si usano propriamente così. Comunque gli unici che possono suonarli restano i Griot.
P.: Come si diventa un Griot?
Y.: Alcuni ci nascono, altri imparano, seguono regole per poterlo diventare. Io all’inizio volevo. Mia madre però ha detto no. Ha detto no perché il ruolo comporta una dimensione mistica, che è per tutta la vita.
P.: Sei al servizio della comunità?
Y.: I Griot sono la memoria storica, sono cantastorie e musicisti e sono sempre al servizio della comunità. La loro vita è completamente dedicata a questo. Si diventa Griot se qualcuno nella tua famiglia ti istruisce. Il problema è che una volta diventato Griot non si torna indietro, non è un lavoro da cui ci si può licenziare.
Il fratello della mia mamma era un Griot e suonava il TamTam. Un giorno ha buttato via il Tam Tam, ed è partito per un viaggio. Quando è tornato a casa ha ritrovato il Tam Tam che lo aspettava.
P.: E chi ce l'aveva portato?
Y.: Non si sa!
Un'altra volta mio zio è partito per un lungo viaggio senza portare il Tam Tam, ma gli si sono seccati gli occhi. Non appena è tornato a casa, dove aveva lasciato il suo Tam Tam, i suoi occhi sono subito guariti.
I Griot conoscono tutte le storie del paese.
Lui, mio zio, sapeva la storia di un re di un villaggio vicino al nostro. Questo re aveva tanti feticci. Il giorno che è nato questo re, la prima nutrice che l’ha toccato è morta. La seconda donna è morta e anche la terza che l’ha toccato è morta a sua volta. Poi è arrivato suo padre per recuperarlo e lo ha lasciato fuori casa. L’ha lasciato lì e il bambino, dopo tre ore fuori, ha iniziato a parlare. E lui è il Griot.
P.: Spiega bene cos'è il feticcio
Y.: È una persona che fa qualcosa che gli altri non possono fare. Perché lui sa i segreti della natura. Quindi i feticci sono delle persone. Il feticcio è un potere che è dentro le persone.
P.: E allora il coronavirus, da quel punto di vista lì, come è vissuto?
Y.: All’inizio la gente non ci ha creduto molto. Poi ci sono modalità che il Re suggerisce. Tipo di fare un infuso con tre tipi di foglie d’albero diverse. Se tu bevi questo infuso puoi parlare e stare vicino all'infinito senza prendere il coronavirus. Ma io non credo a queste cose.